2005 - 2007

Dalla mostra: "Interni di Babelopoli, Mantova", Palazzo Ducale, 2007

Testi

Interni di Babelopoli, perché? cominciamo dalla fine. Babelopoli, fortunata crasi di Babele e Paperopoli, è, com’è noto, la città immaginaria scelta da Alessandra Zorzi anni fa come ambiente e sfondo delle sue storie dipinte e ricreate nei microchip del computer.”… si riemerge sull’orizzonte di città polietniche” scrivevo anni fa a proposito di Babelopoli, “multispecifiche, stratificazioni multiple di storie varie, che affondano nel passato remoto e includono il futuro possibile. Babelopoli è una di queste città: nel suo piano regolatore convergono istanze e motivi già presenti a Babele e altri caratteristici invece di Paperopoli”. Alessandra Zorzi di formazione è architetto e, in quanto tale, ha sempre dedicato uno speciale interesse e fervore alla ricostruzione immaginaria del paesaggio urbano tanto nelle componenti fumettistiche, il colore, le forme giocose e ludiche, l’elastica duttilità di spazi ed edifici, quanto in quelle mitiche, l’ambizione perversa, la tensione all’impossibile, il caos.

Da questo punto di vista la sua città è da interpretarsi propriamente come studio di una allucinante polis postmoderna, il luogo della vita male-associata, dove i nodi vengono al pettine e prendono forma secondo questa particolare, e alquanto caotica, configurazione. Ma, al tempo stesso, la sua è una versione, ancora una volta niente affatto semplice, della tradizionale pittura di paesaggio, che dall’affresco del Buongoverno dei Lorenzetti si addentra profondamente nella modernità, fino alla Città che sale di Boccioni e oltre ancora. Naturalmente la città di Alessandra Zorzi, come quasi tutte le città dell’arte, non esiste. È una combinazione del piacere aggregativo e combinatorio di forme e della tipica spazialità a tunnel che si apre attraverso lo schermo del computer. Invasiva e claustrofobica, essa cresce e si propaga nello spazio virtuale con la rapidità e la pregnanza delle ossessioni e degli incubi ma altrettanto rapidamente decade e precipita, lasciando poche tracce della sua storia e della sua passata grandezza. Parafrasando Marc Augè, si potrebbe dire che l’arte, e in particolare la computer art, produce da questo punto di vista poche rovine. Ma di questo Alessandra Zorzi giustamente non si preoccupa; anzi, ligia al suo compito di pianificatore responsabile, ha osservato Babelopoli innanzitutto all’esterno, trattandola come teatro di avvenimenti tanto pittorici quanto digitali, come sfondo e quinta di un “contenuto” che le interessava esprimere. Oggi invece, metaforicamente, l’attenzione si sposta all’interno, dentro le dimore immaginarie che compongono questo luogo mentale e creativo, dove presente e passato convergono e implodono l’uno nell’altro. Forse oggi per Alessandra Zorzi l’architettura come progetto e come organizzazione di uno spazio possibile conta meno della narrazione, della multiforme epifania del fatto umano nella sua infinita, irresistibile varietà; e per questo l’artista avrebbe rinunciato alla distinzione originaria fra paesaggio e storia, fra pietre e uomini, fra forma permanente, progettata, e contenuto accidentale, dinamico, effimero. È nata così l’ultima serie di pastelli, disegni e tempere che danno il titolo a questa mostra. Pur senza perdere interesse per la dimensione fumettistica, per una certa valenza apparentemente ludica e talvolta grottesca di certi personaggi, l’artista li forza in un concentrato di sviluppi lineari e in qualche misura plastici che nel tempo ha acquistato sempre di più un carattere autonomo da ogni rappresentazione riconoscibile, e tende ormai alla pura astrazione. Horror vacui: Alessandra Zorzi sembra essersi ispirata a certi pannelli medioevali in rilievo, specie alcune visioni infernali due e trecentesche, dove la dannazione si esprime appunto come caos e il dolore come mancanza di forma. I suoi personaggi soltanto raramente mantengono una loro corporeità piena e una loro struttura definita, più frequentemente si intrecciano l’uno nell’altro, si dilatano in un agglomerato unitario di gonfiori e di strozzature, di infiorescenze e gemmazioni dal sapore organico e le ombreggiature profonde e distese su campiture tendenti al monocromo (una scelta che accentua le affinità col rilievo piuttosto che con la pittura). C’è violenza, indubbiamente, alle spalle di queste elaborazioni, o meglio un orrore della violenza consumata quotidianamente e riflessa per inerzia sulle pagine dei giornali; in particolare l’abuso esercitato verso le donne e l’universo femminile. Una violenza sistematica, insistente, che si consuma spesso negli “interni”, nella sopraffazione e nell’abuso segreto, protratto nel tempo fino al climax che raggiunge le pagine di cronaca e viene subito dimenticato. Una violenza che in occidente assume spesso le fattezze della patologia familiare ma altrove è addirittura ideologia, habitus, forma mentis. A questo disagio, a questa emozionata indignazione Alessandra Zorzi replica con il ritorno alle grandi rappresentazioni del Medioevo maturo, le bolgie di dannati e i demoni senza volto delle pestilenze; insiste sulla dimensione collettiva della sopraffazione, impersonale, massificata o si potrebbe dire indifferente nel senso leopardiano della natura. Non è quella donna, quell’evento, quel problema, sono tanti (tutti) i problemi, le donne, gli eventi; tutti quelli che ci sono stati e ancora potrebbero esserci e ci saranno. La valenza appunto collettiva dell’intenzione espressiva compromette e altera la forma dei corpi, ne fa una specie di primordiale agglomerato, un magma prima (o dopo) la distinzione. C’è un implicito richiamo surrealista in tutto questo, per esempio ai disegni automatici di Andrè Masson, soprattutto quelli a sfondo erotico, dove era stata cercata e raggiunta una densità e un punto di concentrazione simile; oppure alle creature ibride e perverse del primo Giacometti, mantidi e donne insieme, manichini e corpi immortalati sul crinale dell’informe batalliano. Come questi autorevoli precedenti, anche i disegni di Alessandra Zorzi non mancano di eleganza, nei tratti curvilinei delineati da una mano che scorre sapientemente e con morbidezza sulla superficie, fino a occluderla tutta. C’è una bellezza del segno e della forma indipendentemente dalla sua pregnanza narrativa ma colta soprattutto nel suo valore estetico di arabesco, di motivo, di traccia astratta. Ma oltre l’eleganza, anzi forse proprio attraverso questa, si intuisce la pregnanza e l’intensità di una riflessione volta oggi soprattutto a disarticolare i nessi, a valorizzare il caos anche nella sua dimensione estetica, ad affrontare l’entropia che assedia il mondo con la piena coscienza della lezione di Bataille e dei surrealisti e, insieme, un’affezionata cura dei propri mezzi espressivi tradizionali, pittura e disegno. Per spingere lo sguardo proprio dove è più difficile vedere, nel cuore del rimosso delle nostre storie individuali e della nostra epoca come costruzione sociale e mitica.

“Il mondo mi appariva così piccolo e bagnato
che avrei voluto prenderlo in mano
e porlo dietro la stufa
ad asciugare”
(Georg Buchner)

“Pensa con i sensi – senti con la mente” è il titolo della Biennale veneziana in corso, definito da alcuni “criptico e affabulatorio” ma, a ben vedere -fermo restando il convincimento che nulla vi sia di più stupido della paternità di un’idea- un titolo che esprime un sentimento comune, una sintesi cui in molti erano arrivati, un titolo che “era nell’aria”, in attesa che qualcuno vi ponesse un marchio. Straordinariamente in linea con l’apparente paradosso dell’enunciato sono questi ultimi lavori di Alessandra Zorzi, Interni di Babelopoli, un coacervo di immagini che trae spunto da uno studio approfondito della anatomia leonardesca (finalizzato ad un’animazione), ove sono miscelati gli elementi più disparati, le immagini più antitetiche provenienti dal sogno, dal fumetto, dalle fiabe, dalla cronaca, dalle tavole anatomiche ecc. Un grande “macabro”, una totentanz dove all’evidenza terrifica di scheletri e memento mori si sostituisce l’ insinuante rappresentazione di una strisciante mostruosità quotidiana fatta di odio, di diritti calpestati, di soprusi e incuria, di miseria e ignoranza, quasi una Guernica post-moderna che ci travolge con la sua violenta anti-violenza. Se la realizzazione, affidata ad automatismi alla Tanguy, è sintomatica di un’urgenza viscerale, questa sua visione di una realtà sottosopra, ribaltata come una figura di Baselitz, è espressione di un Horror vacui “Klimt-Jacovittiano”, pullulante di enfiagioni patologiche, viscere dentate, vagine medusiformi, che a loro volta si assemblano in mostruose creature di sapore arcimboldiano. In questa rappresentazione caotica della realtà, Alessandra Zorzi affonda il bisturi della ragione, non rassegnandosi al ruolo pirandelliano di osservatore lucido e distaccato, testimone passivo e rassegnato di una crisi epocale. Se per “il figlio del caos” la vita non è altro che una fantocciata, una buffoneria, che l’uomo non è più in grado di comprendere e di governare a causa della propria irreversibile alienazione, per Alessandra l’uomo (faber fortunae suae) è il responsabile ultimo del caos vermicolante e molliccio che abita gli “interni di Babelopoli”, di una disgregazione che l’artista percepisce ed evidenzia con toni allarmati. Qui dovremmo forse riaprire un’annosa (e sterile) questione su quale sia il ruolo dell’artista, quali i confini del suo intervento, ma sarà forse sufficiente sottolineare come l’arte non sia qualcosa di avulso dal mondo circostante, un’isola felice dove gli accadimenti esterni giungono attutiti, filtrati da chissà quali marchingegni. Anzi. Si comprenda che un Artista non può non essere testimone del suo tempo: ne è, al contrario, “supertestimone” essendo solitamente “più avanti” nella percezione delle situazioni, quasi un ibrido tra un sensibilissimo sismografo emozionale e un’evoluta cartina tornasole, perennemente immersa negli umori del presente e pertanto costantemente aggiornato. Se Babelopoli era al tempo stesso una città inesistente e la summa di tutte le città reali, i suoi “interni” sono il teatro di una cronaca mai narrata, squallida e putrescente, sordida e crudele, tossica e intossicata. E’ la realtà che si vuole nascondere a sè stessi prima ancora che agli altri. Ma Alessandra questa “natura morente” la raffigura con la spietata oggettività di un’istantanea, e l’effetto è straordinario: per fare un esempio è come se le raffinate composizioni con pesci e crostacei di un Felice Boselli fossero state soppiantate dalla rappresentazione delle buste in plastica di molluschi surgelati del supermercato! Ironia e autoironia, ingredienti basilari e consueti nel repertorio di Alessandra, ma è da dire che il peso di questo disfacimento globale, che si attua a livello storico, climatico, geopolitico, ha riflessi evidenti anche sul suo umore -oltre che sulla sua pittura- procurandole una sorta di “somatizzazione indignata” che produce un duplice effetto sul suo lavoro: la riduzione della percentuale ludico-fumettistica cui ci aveva abituati e la rinuncia quasi totale all’apporto del colore, cui viene preferita la severità del monocromo. Ora che Babelopoli si va trasformando in Sodomorra è inevitabile che ciò avvenga, è normale che vi siano queste reazioni preoccupate, soprattutto in chi, tifando per la componente paperopolese della fantasiopoli zorziana, non vede alternative possibili all’intervento di “Paperinik”! Che Dio ci assista…

Mantova, agosto 2007
Carlo Micheli
Responsabile Ufficio Mostre​ del Comune di Mantova

È opinione condivisa e diffusa della critica che la fine delle avanguardie, o della modernità, abbia coinciso con l’esaurimento del desiderio rivolto al sistematico e progressivo rinnovamento delle forme, spinto in direzione di un “oltre” tanto fondante e originale quanto distruttivo nei confronti dei propri precedenti. Conclusa per inerzia intrinseca questa celebrata strategia di produzione artistica e culturale, quel che resta è un costante ritorno sull’esistente, un procedere per variazioni su temi in qualche misura sempre già dati e sempre ancora inesauribilmente disponibili a una rilettura, a un’elaborazione ulteriore. Una nuova condizione operativa che naturalmente non ha impedito e non impedisce il manifestarsi di invenzioni proprie e individuali, in altre parole di stili che caratterizzano le ricerche singolari, spesso proposti più come forme dell’interpretazione e confronto con l’altro (il mondo, la tradizione, la realtà) che come elementi dati ex novo, anzi ex abrupto. Sembra una contraddizione ma non lo è anzi, come scrive Agamben, si tratta di una dicotomia inscritta nelle strutture profonde dell’arte occidentale:”…la cultura occidentale si svolge e trasforma attraverso un processo di “polarizzazione” della tradizione culturale ricevuta. Ciò non significa che non vi siano in essa momenti creativi e rivoluzionari ma semplicemente che (poiché ogni cultura è essenzialmente un processo di trasmissione e di Nachleben) creazione e rivoluzione operano, in genere, “polarizzando” i dati forniti dalla tradizione fino ad arrivare, in certi casi, alla loro totale inversione semantica. La cultura europea è, malgrado tutto, conservatrice, ed è conservatrice proprio nella misura in cui è progressista e rivoluzionaria”. La ricerca di Alessandra Zorzi ci offre un esempio calzante e significativo di questo modo di procedere che forse non è improprio, ma non sufficiente, qualificare come “postmoderno”. L’artista non solo non elude il confronto ma anzi investe apertamente sulla tradizione forzandola però in “contenitori” ad alta tecnologia che ne stravolgono l’aspetto e soprattutto la valenza comunicativa. Qui sta la polarizzazione nella sua attualizzazione specifica operata da Alessandra: la tradizione è indagata con puntiglio e serietà quasi filologica per estrarne un senso che viene ricombinandosi secondo una prassi di montaggio, o di narrazione, ad alta tecnologia, fedele e infedele al tempo stesso a un “testo” che, nella sua originaria purezza di senso non ci riguarda più o, forse, addirittura non ci è più accessibile. È in virtù di questo approccio che l’artista associa liberamente e senza disturbare la fondamentale coerenza della sua ricerca, pittura, disegno, offset, stampa su supporti sintetici e video d’animazione, una tecnica lentissima e impegnativa che negli ultimi anni ha assorbito parecchie delle sue migliori energie. Anzi è proprio un video d’animazione, dedicato ad Andrea Mantegna e prodotto in occasione delle celebrazioni per il quinto centenario della morte di quest’ultimo, che l’ha portata a Mantova l’anno scorso: un lavoro di ricostruzione minuziosa e attenta dell’intero percorso del grande pittore rinascimentale, ove tuttavia forme narrative e ritmo non perdevano l’occasione di veicolare l’approccio originale dovuto a una personalità forte, di inventare da capo e finanche di forzare, ma senza mai tradire, le forme del maestro. Per questo motivo Alessandra Zorzi non può, di fatto, lavorare su commissione: le immagini di partenza, antiche, e la personalità di chi le ha prodotte, devono già riguardarla in qualche modo, coinvolgerla, prestarsi al suo intervento e alla sua elaborazione. È questo il termine della relazione che l’artista cerca con il passato: non un omaggio e neppure una strumentalizzazione, ma invece un dialogo con le forme che comporta la loro autentica “messa in moto” attraverso il procedimento dell’animazione utilizzato come strumento, al tempo stesso, estetico e conoscitivo. Intendo dire che, sottoponendo le immagini alla necessaria variazione di formato e di struttura, trasformandole in files digitali e poi variandole, animandole, collegandole l’una all’altra, Alessandra Zorzi naturalmente ne approfondisce natura e dettagli, in altre parole le esplora come solo un artista, cioè un complice, sa e può fare. Non per niente Cavalcaselle raccomandava ai pionieri della critica e della storia dell’arte di incominciare lo studio di un’opera disegnandola perché solo così ne avrebbero compreso le interne connessioni, l’intimità, il senso e la struttura. Da questo punto di vista, si potrebbe dire che Alessandra usa un pennello o una matita digitale, che le consente di potenziare il suo sguardo e la sua attenzione per capire certo, e anche per ricostruire un oggetto ovvio ma ancora in realtà inesplorato. Oggi è la volta di Leonardo da Vinci, a cui è dedicato il video che viene presentato per la prima volta in questa occasione. Non tutto Leonardo, peraltro, ma piuttosto l’uomo di Leonardo scoperto attraverso lo studio dei codici e dei disegni di anatomia. Da questi Alessandra Zorzi ha dedotto innanzitutto la fortissima rassomiglianza, certo non casuale, che si coglie nei volti di molte fra le figure maschili ritratte: naso importante, lungo e proteso verso il labbro superiore; gli angoli della bocca rivolti ostinatamente verso il basso, mento carnoso, le guance un po’ cadenti sul collo. Che sia di profilo o di tre quarti, con barba o senza, questo volto è assomiglia indubbiamente a quello dell’artista, le cui fattezze ci sono note attraverso gli autoritratti, veri o presunti. In altre parole: per rappresentare l’uomo, Leonardo ha utilizzato innanzitutto sé stesso e per questo va annoverato fra i grandi maestri dell’autoritratto, un po’ come Rembrandt o come Dürer, benché il suo procedimento quasi scientifico al problema del ritratto, che in questo caso sarebbe opportuno chiamare questione fisionomica dato che rifiuta ed esclude qualunque approccio troppo idealizzante o metaforico, non abbia forse invitato gli storici a considerarlo come tale. Nel suo stesso volto, infatti, l’artista cerca il fenomeno non il simbolo, il dato empirico e biologico che, in quanto tale, è naturalmente soggetto al tempo e nel tempo cambia e si manifesta. Alessandra Zorzi si appassiona di questi mutamenti, insiste sul confronto, associa forme, fisionomie e figure e rende evidente una somiglianza rimasta un po’ in sottofondo nelle trattazioni storiche o scientifiche. Poi passa oltre: nel suo delizioso e convincente sviluppo, racconta organi e muscoli, scheletro e polmoni, inserendo il personaggio-creatura biologica in una storia che lo riguarda da vicino pur non essendo stata prevista dal suo autore. È la storia della generazione, del destino dell’uomo come membro di una specie. L’incontro con una svolazzante creatura di sesso femminile vagamente botticelliana produce infatti un’emozione che fa pulsare il cuore del nostro e, messo a nudo l’oggetto di quel nuovo desiderio e artefice dell’incontro, facendole assumere l’aspetto di una possibile Leda estrapolata da un dipinto (attribuito) della maturità, fra i due si verifica un accoppiamento a proposito del quale l’artista non manifesta pudori ma nemmeno malizie. Anche il sesso è un fatto biologico, corporeo, naturale, non sentimentale e non poetico. Non lascia adito a dubbi il disegno che Leonardo esegue in proposito, una specie di schema anatomico tanto analitico quanto poco erotico. Comunque quel che conta è che da tutto ciò prenda forma un feto, diligentemente osservato ancora ripiegato su se stesso nel grembo materno, e poi divenuto un bel bambino ricciolo e poderoso. A questo punto, chiusi i conti con la verità biologica e il gusto leonardesco per l’osservazione naturalistica, Alessandra Zorzi si concede qualche libertà spingendosi verso il mondo degli animali e coinvolgendo due gatti, tratti anch’essi naturalmente dai codici leonardeschi, in una graziosissima vicenda di giochi e inseguimenti reciproci. Come dire, chiudiamo in scioltezza il convenio con uno dei più celebrati pittori e umanisti di tutti i tempi: la Zorzi l’ha fatto suo per vie traverse, laterali, vie minori che, ricusando le ovvietà permettono ancora la scoperta, l’imprevisto. E poi l’approccio scientifico, razionale, è congeniale all’artista, che anche nei lavori precedenti aveva spesso fatto appello a quella ragione umanista e illuminista così spesso assente nei discorsi e nei progetti umani. Un’assenza che, nell’animazione intitolata appunto Il sogno della ragione (un titolo che naturalmente parafrasa il celebre Sonno della ragione genera mostri evocato da Francisco Goya nell’omonima acquatinta dei Capricci),è lacanianamente additata come principale responsabile di guerre, massacri, torture e opere di sterminio, commesse in nome del potere, del dominio, della politica o di Dio e colte attraverso un’allucinante sequenza di dipinti antichi e moderni, di fotografie e di documenti che reiterano e ripetono gli effetti della violenza e della sopraffazione, della distruzione e, insomma, del male (il mostro della ragione, generato appunto insieme ad altri, minori fantasmi da quel colpevole sonno rappresentato da Goya). In questo intervento, come in altri che precedono a cominciare dal Pelo nell’uovo, sorta di clamorosa, impegnativa e affascinante metafora della vita secondo Alessandra Zorzi, l’artista non nasconde il suo gusto per l’immagine barocca, la ridondanza di forme e dettagli, l’eccesso di emozioni e significati, che nel suo lavoro si intrecciano gli uni agli altri secondo ritmi e nessi non solo spaziali ma temporali, che il linguaggio dell’animazione le rende facilmente accessibili, anzi necessari. Ed è proprio nella sequenza temporale che acquista piena evidenza il suo piacere dell’eclettico e del discontinuo, quella libertà di associazione e di combinazione pienamente ricreativa e, appunto, come si diceva, postmoderna. In questo modo la citazione non ha spazio di per se stessa, ma vive soltanto come fuggevole dettaglio o parte di un provvisorio e dinamico puzzle che gioca col senso, con i significati, come con le immagini effimere e scintillanti di un caleidoscopio. La materia, diceva Shakespeare, di cui sono fatti i sogni. Di cui siamo fatti noi.